Dal Maso, avvocato di Stevanin e Profeta: i legali dei Romano sono preparati. E anche i mostri hanno delle ragioni
«Il processo impossibile non esiste. Neanche quando la sentenza sembra già scritta, perché le prove di colpevolezza sono schiaccianti. La giustizia è come un grattacielo di pietra. In uno dei suoi piani si nasconde sempre una crepa. Bisogna saperla vedere e infilarsi, così l’attacco difensivo è sferrato». Cesare Dal Maso, foro di Vicenza: è l’avvocato che difende gli indifendibili. L’uomo che attraverso la legge ha portato le “ragioni” di criminali che si sono macchiati di crimini orrendi. Sempre da ergastolo. Qualche volta anche confessati. Cesare Dal Maso è stato il difensore, nei tre gradi di giudizio, del “mostro” Gianfranco Stevanin: assassino seriale della Bassa veronese che ammise l’omicidio di sei giovani donne. Avvolse i loro corpi fatti a pezzi nel domopack e li seppellì nei campi dietro casa. Stevanin ma anche Michele Profeta, il serial killer che nel 2001 a Padova ha ucciso due agenti immobiliari e un tassista, preso da un delirio di onnipotenza aveva chiesto 12 miliardi di lire persmettere di ammazzare. Poi Peter Paul Rainer, 29 anni, l’ideologo degli Schützen ed esponente di primo piano dei “Freiheitlichen” che a Bolzano sparò all’amico e compagno di partito Christian Waldner. E ancora Cosimo Iannece, imprenditore edile di Gallarate che versò una tanica di benzina sulla testa di un suo operaio romeno, Jon Cazacu, per poi dargli fuoco. Assassini senza via di scampo. Avvocato per queste persone lei ha chiesto l’assoluzione. Non le è mai venuto il dubbio di avere sbagliato? «Chi fa questo mestiere non può permettersi di avere dubbi. Tutto sta nel decidere se accettare o no la difesa. E io non ho mai rinunciato. Rifiutare un processo vuol dire avere perso in partenza la sfida». Per il caso Stevanin i parenti delle vittime le hanno sputato in faccia. Cos’ha provato? «La cosa grave era il sangue versato. C’era il dolore dei parenti. Maanche un uomo che pur essendosi macchiato di reati efferatissimi aveva diritto alla difesa. Anche se sembra impossibile, dietro a tutta quella storia e in mezzo all’orrore c’erano comunque delle ragioni. Ragioni che all’inizio non si possono vedere. In aula pensavo soltanto a descrivere queste ragioni alla giuria. Dovevo raccontarle a tutti i costi. Piano piano vedevo che anchechi mi aveva sputato, aun certopunto, ascoltava. E alla fine annuiva. Anche nei processi più disperati, quando ci sono prove e confessione, si trova comunque una breccia. Un dettaglio che può essere amplificato e sul quale si possono ottenere le attenuanti generiche. Non mi piace usare la parola “vincere”, un processo non è una gara di calcio saponato». Cosa si pensa quando si entra in aula per difendere un colpevole? «Si ha paura. Forse è la stessa paura che si era impadronita del criminale quando ha compiuto l’atto. Il meccanismo è lo stesso. E l’empatia nasce. L’avvocato non commette reato ma ha paura di non essere capito. O magari frainteso». Frainteso su cosa? «Dei sentimenti che un difensore prova nei confronti dello stesso criminale. Io non nego di avere stretto un rapporto di amicizia con alcuni dei miei assistiti, nonostante fossero assassini spietati. Stevanin per esempio. Nel suo caso era necessario ottenere la confessione. Solo il suo racconto dei fatti e dei “moventi” avrebbe permesso di giocare la carta (in questo caso ambiziosa) di una perizia psichiatrica. Perfarlo parlare e arrivare alla confessione ho dovuto conquistare la sua fiducia e dargli la mia amicizia. A mio parere quell’uomo era incapace di intendere e di volere quando ha ucciso. Le perizie lo hanno detto. Era malato di mente e aveva bisogno di essere curato. La Cassazione però ha deciso diversamente e per quell’uomo sono state gettate le chiavi della cella». I coniugi di Erba hanno confessato e ritrattato. Che senso ha rimangiarsi tutto? «Non conosco gli atti, ma mi pare che il collegio difensivo sia molto preparato e abbia ben chiara la strategia. Anche questi avvocati hanno chiesto la perizia psichiatrica. Vedremo». Anche con il serial killer Michele Profeta aveva stretto amicizia? «Non ho timore a dire che è così. A me è impossibile restare asettico davanti a un uomo, anche quando ha commesso reati gravissimi. Profeta era un uomo dalla doppia vita, entrambe fallite. Un uomo pieno di vizi e senza una lira. Sconfitto su tutti i piani: sentimentale, professionale, familiare. Uccise in preda ad una particolare follia, che lo aveva spinto ad elaborare un piano contorto e malato allo scopo di estorcere soldi alla comunità. Un caso quasi unico. Nonostante tutto era un uomo generoso e sensibile». Assassino sensibile e generoso? «Condannato all’ergastolo dalla Cassazione, prima di morire mi scrisse una lettera: “Avvocato riceva il mio grazie per avere fatto per me ciò che fece Leonida alle Termopili”. Anche lui pazzo totale secondo gli psichiatri. Pienamente capace per i giudici». Cosa deve fare l’avvocato degli indifendibili? «Non pensare al sangue ma solo ad accendere il dubbio nella mente di chi lo ascolta e deve decidere. Il padre del diritto è il buon senso. Se lo sposi allora i giudici diventano tuoi alleati. Non importa la sentenza. Vinciquandohai dato un’alternativa diversa a chi aveva già sentenziato per partito preso ».