ABANO. Diciotto anni di reclusione, sei in più rispetto a quelli richiesti dal pm. Ieri mattina è calata la scure penale sul trentenne Maich Gabrieli di Rosà, il giostraio che prese parte all’assalto alla gioielleria di Abano dove morirono il titolare Gianfranco Piras e il bandito Emanuele Crovi.
Sentenza emessa in abbreviato dal gup Nicoletta De Nardus, implacabile nel soppesare la gravità dei reati contestati al tuttora capo dei «sinti» Gabrieli, pur se aveva collaborato con gli inquirenti. Era accusato di concorso in associazione per delinquere finalizzata alla commissione di ben 12 rapine messe a segno nelle province di Venezia, Vicenza, Treviso e Padova, di furto e ricettazione di auto impiegate durante i colpi, porto e detenzione di armi e di omicidio volontario. Quantità e qualità dei reati a parte, nel calibrare la pena nei suoi confronti ha pesato negativamente il fatto di non aver risarcito alcun indennizzo ai familiari del gioielliere (moglie e due figlie), costituiti parte civile con il patrocinio dell’avvocato Luigi Morellato di Stra. La loro richiesta, estesa anche agli altri due complici del sanguinoso assalto, era e rimane di un milione e mezzo di euro. Il giudice non è, però, entrato nel merito dell’esatta quantificazione risarcitoria, da stabilirsi in separato giudizio. Ha solo condannato l’imputato al pagamento di 6 mila euro per le spese legali.
Ieri Gabrieli, assistito dagli avvocati Cesare Dal Maso e Chiara Bellini di Vicenza, non era presente in aula. Va anche ricordato che attualmente è agli arresti domiciliari a Bassano, a casa della moglie. E non tornerà in carcere nemmeno dopo la condanna di primo grado, avendo il suo difensore preannunciato appello contro la sentenza.
Quello di Gianfranco Piras fu, comunque, un omicidio agghiacciante, conclusosi in un bagno di sangue e con la morte di Crovi caduto sotto i colpi sparati dal gioielliere nelle fasi finali della rapina. Sequenze da brividi. Il gioielliere venne ammazzato il 19 luglio 2005 da una sventagliata di kalashnikov esplosa, stando all’accusa, da Fabrizio Panizzolo, di Liettoli di Campolongo, rinviato a giudizio davanti alla Corte d’Assise il 26 gennaio insieme a Fabiano Meneghetti, altro componente della banda. E se a Gabrieli sono stati inflitti 18 anni, per i complici si profila un processo disperato.
Tornando alla sentenza del gup nei confronti di Gabrieli, va sottolineato che i 12 anni chiesti in requisitoria dal pm Paola De Franceschi tenevano conto delle prove raccolte dagli investigatori, giunti all’identificazione del «sinto» grazie al test del Dna sulle sue gocce di sangue lasciate all’interno della gioielleria dopo essere stato ferito. Faceva però da contrappeso la collaborazione, lucida e coerente, offerta dall’imputato e confermata da alcuni riscontri. Il difensore Dal Maso, con un’arringa tesa a focalizzare appieno i dati oggettivi del tragico evento, ha invece giocato la carta del fatto diverso da quello voluto. Un fatto imponderabile, tale da far «deviare il corso degli eventi sfociando in un dramma per il quale non bastano le parole a descriverlo». E per rendere credibile la sua tesi, ha elencato la ricostruzione minuziosa delle varie fasi della tragedia, cercando adirittura di scardinare l’impianto accusatorio nel tentativo di derubricare il titolo del reato. Una rapina sfociata in omicidio «solo per eventi imponderabili o comunque imprevedibili». Alla resa dei conti, la sentenza del giudice De Nardus ha non solo bocciato il teorema difensivo ma addirittura inasprito la pena sollecitata dalla pubblica accusa. Un pentito che non risarcisce un soldo d’indennizzo risulta collaborativo solo a metà. Nel determinare la pena, il giudice ha ritenuto le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti. Solo con le prevalenti si sarebbe potuto arrivare ai 12 anni chiesti dal pm.
Enzo Bordin